venerdì 3 agosto 2012

Jonathan Coe - La casa del sonno


Jonathan Coe, La casa del sonno, Feltrinelli, Milano, 1999, pagg. 305
Titolo originale: The House Of Sleep
Anno di prima pubblicazione: 1997
Traduzione di Domenico Scarpa
Voto: 9,5




Magnifico e geometricamente perfetto: La casa del sonno del celebre scrittore inglese Jonathan Coe è una scoppiettante macchina narrativa in cui ogni elemento della trama è legato in modo sorprendente al resto della vicenda, in un’orchestrazione magistrale da parte dell’Autore, che distribuisce con bravura e controllo totale tutti i pezzi dell’intreccio. Un pugno di personaggi principali ruotano attorno ad Ashdown, una severa villa sul mare inglese: essa è dapprima, nei capitoli pari, un dormitorio universitario dove risiedono i personaggi da studenti; dodici anni dopo, nei capitoli dispari, essa è diventata una clinica dove si studiano il sonno e le patologie ad essa collegata, ed i personaggi in vario modo hanno ancora a che fare con essa (e tra di loro). La magia del romanzo sta proprio nella sua costruzione, che sembra richiamare l’antichissima tecnica dell’entrelacement (intrecciare nella storia vari filoni narrativi saltando dall’uno all’altro continuamente, espediente comune già nei poemi cavallereschi) declinata però in modo moderno e dinamico, con criterio giocoso ma al tempo stesso rigoroso: capitolo dopo capitolo si presentano vari tableaux narrativi che sembrano indipendenti e autonomi, ma piano piano ne vengono svelati tutti i collegamenti, tanto che alla fine (e per fine intendo l’ultima pagina) si capisce che tutto è perfettamente combinato (ripeto: perfettamente) e non c’è un solo elemento che sia fuori posto, inutile o superfluo.

Non c’è solo questo. La bravura di Coe sta anche nello scrivere bene, nell’essere capace cioè di una scrittura limpida e precipua che sia però anche in grado di adattarsi ai vari registri richiesti dalla storia, tanto che sono altrettanto efficaci sia i momenti drammatici della vicenda sia quelli più comici (e ve ne sono alcuni veramente esilaranti). Notevole anche la tecnica di “sfumare” tra di loro le sei parti del romanzo (l’ultimo periodo di ogni parte non termina con un punto, ma rimane sospeso su un’espressione con cui si apre, con la minuscola, il primo periodo della parte successiva): anche questa è una tecnica di vago sapore provenzal-cavalleresco (penso alla cosiddetta coblas capfinidas) pure in questo caso rielaborata in  modo “moderno”, a sancire anche semanticamente l’indeterminatezza dei confini tra una parte e l’altra, tra presente e passato, tra sonno e veglia.

Già, perché c’è anche un interessante aspetto contenutistico su cui vale la pena di fare un accenno. Il romanzo di Coe pare pervaso da un senso di precarietà ontologica che è poi anche gnoseologica: il personaggio di Sarah, che ha sogni tanto vividi che non riesce a distinguerli dalla realtà, è emblema di un racconto in cui ciò che è vero si sfuma e si intreccia con ciò che è immaginato, così come lo fanno il passato e il presente. Se il reale è così incerto, altrettanto incerto è pure il vero, o ciò che è percepito come tale, le convinzioni e i sentimenti intimi di personaggi che dopo dodici anni per certi versi sembrano così cresciuti da non essere neppure lontani parenti del loro io passato, mentre per certi versi conservano tali idiosincrasie che sembrano non essere cresciuti mai. Alla fine, il personaggio centrale è quello di Robert, colui che più degli altri cambia aspetto esteriore – e clamorosamente – ma che in realtà resta più uguale, e coerente, a se stesso. Come dire: non importa quello che fai ma quello che sei, e quello che sei è l’unica cosa che conta veramente, l’unica cosa che ha un senso in un mondo privo di qualsiasi certezza. Direi che è un romanzo da non perdere.

Il professor Cole posò forchetta e coltello e disse come in sogno: “Due anni e poi andrò in pensione. Ho esercitato la professione per più di venticinque anni, e durante questo periodo ho dovuto vedere la psichiatria trasformarsi, agli occhi del pubblico, da seria disciplina medica e screditato segmento del pubblico impiego, a capro espiatorio di tutti i mali che la società emana a getto continuo. Mi sembra pertinente, del tutto pertinente che io concluda la mia carriera facendo composizioni con carta e colla sotto la supervisione di un tizio che ha dieci anni in meno del mio figlio più giovane.”
(pag. 234)

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