venerdì 18 gennaio 2013

Raymond Queneau - Zazie nel metró


Raymond Queneau, Zazie nel metró, Einaudi, Torino, 1994, pagg. 188
Titolo originale: Zazie dans le métro
Anno di prima pubblicazione:  1959
Traduzione di Franco Fortini
Voto: 9




Non spetta certo a me il compito di “scoprire” Raymond Queneau, uno degli scrittori più geniali e inventivi del Novecento, acclamato nella sua Francia ma anche all’estero come una delle voci più interessanti e creative della letteratura contemporanea. In tutto questo levarsi di osanna e plausi, va detto però che spesso Queneau è stato apprezzato molto più dai critici e dai colleghi (Calvino per citarne uno su tutti), insomma dagli addetti ai lavori, che non dal grande pubblico, che non gli ha fatto scalare spesso le classifiche di vendita. In tal senso, Zazie nel metró, pubblicato per la prima volta nel 1959, rappresenta però una piacevole eccezione perché, oltre ad essere stato amato dai “professionisti della letteratura”, è stato anche un successo editoriale, forse l’unico vero bestseller dello scrittore di Le Havre. Senza voler apparire snob, si può sostenere che a favore di questo romanzo, che forse non è nemmeno il migliore dell’Autore (I fiori blu regge il confronto, e magari è pure migliore), giochi la sua semplicità narrativa. O è forse meglio dire la sua apparente semplicità narrativa? La questione è aperta. Come spiega l’iper-accademico, ma assai interessante, saggio di Roland Barthes accluso in calce all’edizione di riferimento, la critica nei confronti di quest’opera si è divisa: a chi sostiene che si tratti di un romanzo in codice, in cui agli elementi del racconto vanno sostituiti altri referenti in un alfabeto semiologico noto solo all’Autore (qualcosa di simile, anche se non proprio esattamente così, avviene proprio in I fiori blu), si oppone chi sostiene che il romanzo non parli di nulla, che nient’altro sia se non la storia di sconcertante semplicità che vi è narrata. Convincentemente, Barthes ritiene che la via giusta stia nel mezzo, la letteratura di Queneau insomma è “il modo stesso dell’impossibile, perché essa sola può dire il proprio vuoto, e dicendolo fonda di nuovo una pienezza” (pag. 155).

Il “segreto” di Zazie, allora, sta forse qua, ed è quasi alchemico, situandosi nella sfida tra il pieno e il vuoto, tra racconto e non racconto, una tensione in definitiva strenua ma giocosa che innerva le pagine di questo romanzo stravagante e divertente ma anche disorientante. Ho usato l’aggettivo “giocoso”: Zazie è una bambina, piccola ma sboccata come un adulto, che in una visita di un paio di giorni a Parigi vive un caleidoscopio di avventure rocambolesche incontrando una galleria variopinta di personaggi improbabile, in una vicenda che si fa e si rifà, che sfugge e si rinnova, che cambia continuamente di baricentro. Ed il tutto è temprato ovviamente dalla maestria stilistica di Queneau, uno degli autori di più difficile traduzione proprio a causa dell’esplosiva inventiva, della straordinaria capacità di giocare con la lingua, di assemblare un linguaggio nuovo tanto dal punto di vista lessicale quanto da quello narratologico, con una lunga serie di incursioni parodistiche, facete ma inappuntabili, e comunque mai sbrindellate, nei generi più disparati. Una giostra di colori come quelle di Montmartre, una Parigi rutilante, in un romanzo paradossale, divertente e serio, che forse vuol dire tutto, forse non vuol dire proprio nulla...

Gli affibbiò un energico pizzicotto. Gabriel schizzò su gridando «uài». È chiaro che avrebbe potuto affibbiarle una sberla da farle saltare due o tre denti, a quella mocciosa: ma cosa avrebbero detto i suoi ammiratori? Meglio uscir dal loro campo visivo piuttosto che lasciarli con l’immagine pustolosa e indecente d’un carnefice di minorenni. Siccome s’era prodotto un notevole ingorgo nella circolazione, Gabriel, seguito da Zazie, scese tranquillamente, facendo astuti segni di connivenza ai viaggiatori sconcertati, ipocrita trucco destinato ad ingannarli. Effettivamente, i suddetti viaggiatori ripartiranno prima d’aver potuto prendere adeguate misure. Quanto a Fiodor Balanovic, l’andare e venire di Gabriella lo lasciava affatto indifferente e si preoccupava soltanto di portare le sue pecorelle nel luogo voluto prima dell’ora in cui i custodi dei musei vanno all’abbeverata, irreparabile essendo altrimenti una simile falla perché l’indomani i viaggiatori sarebbero ripartiti per Gibilterra aux anciens parapets. Ché tale era di costoro l’itinerario.
(p. 74)

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