Judith
Schalansky, Atlante delle isole remote, Bompiani, Milano, 2013, pagg.
143
Titolo originale: Atlas
der abgelegenen Inseln
Anno di prima pubblicazione: 2009
Traduzione di Francesca Gabelli
Voto: 9
Non può non
venire in mente l’Atlante di Jorge
Luis Borges, richiamato già dal titolo, (ma anche le precedenti Città invisibili di uno degli epigoni
più illustri dell’argentino, Italo Calvino), ma l’ottima idea della giovane
scrittrice-designer tedesca Judith Schalansky è molto meno metafisica e molto
più “estetica”, anche a livello grafico: un atlante, con tanto di dettagliate
cartine, delle cinquanta isole più sperdute del mondo, ad ognuna delle quali è
collegato un breve racconto. L’idea di partenza, dicevamo, è ottima, ed ha un
fascino irresistibile: un catalogo delle isole più remote – le isole di per sé
hanno un fascino particolare, quelle remote poi sono davvero irresistibili –
che raccolga i posti dove verosimilmente nessuno di noi, a cominciare dall’Autrice
che lo specifica sin dal sottotitolo (“Cinquanta isole dove non sono mai stata
e mai andrò”), metterà mai piede. Com’è il mondo alla fine del mondo, in luoghi
in cui la vita umana è profondamente diversa da come la conosciamo o,
addirittura, nemmeno si è insediata, tanto proibitive sono le condizioni di
quei luoghi? Il libro della Schalansky si presenta allora come un piccolo
scrigno di terre misteriose e lontane, vere ma così incredibili da sembrare
partorite dalla fantasia di un artista.
La fantasia
dell’artista, del resto, ha la sua voce in capitolo: i racconti che la Schalansky
collega alle isole sono di varia natura, alcuni parlano proprio dell’isola in
sé, magari con un tocco metafisico proprio alla Borges, altri raccontano
vicende ad esse collegate, come quelle dei primi esploratori che visitarono le
isole o delle persone che là vissero situazioni particolari (si parla ad
esempio di Amelia Earhart, la prima donna a trasvolare l’Atlantico in solitaria
e che si inabissò a largo dell’isola Howland, pag. 76, o della famosa battaglia
che nel ’44 ebbe luogo nella fino ad allora sconosciuta Iwo Jima, pag. 112).
Insomma, anche l’aspetto strettamente narrativo di quella che può comunque
essere definita come una raccolta di racconti è valido e permette una lettura
piacevole di questo libro; come detto, però, il fascino di queste pagine non si
ferma alla lettura ma si estende anche alla visione della parte grafica, al
godimento di un prodotto editoriale curato e impeccabile in ogni suo aspetto.
Quando, dopo
cinquanta giorni, avvistano finalmente la terra, non scoprono un fondale dove
gettare l’ancora; le scialuppe che sbarcano sulle isole non trovano niente che
possa placare la fame o la sete. Le chiamano “isole della Delusione” e
proseguono il loro viaggio. Lo scrivano di bordo, Antonio Pigafetta, annota:
“Sono convinto che un tale viaggio non sarà intrapreso mai più.”
(pag. 70)
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